A cena da Davide Palluda …

Ci sono, penso li abbiamo tutti, i periodi in cui la voglia di cucinare scarseggia, ma questo non significa che non si debba mangiare e per di più con gusto. Così ieri sera, al posto del solito processo (lambiccamento di cervello – saccheggio di frigo, dispensa o orto – ore più o meno lunghe ai fornelli), ho pensato bene di farmi portare fuori a cena. E di certo non una cena qualsiasi. Fino a qualche anno fa ritmi di lavoro e impegni diversi da oggi facevano sì che noi si fosse tra i clienti più fedeli di parecchi ristoranti della zona, che visitavamo a turno almeno due o tre volte la settimana. Con il passare del tempo – complice, lo ammetto, l’introduzione del divieto di fumare nei locali pubblici – le nostre abitudini sono cambiate e, avendo unitamente convenuto che alla fin fine si mangia spesso molto meglio chez nous che fuori, le nostre uscite si sono sostanzialmente ridotte di numero. In compenso abbiamo bilanciato abbondantemente aumentando in modo inversamente proporzionale la qualità minima attesa e, quasi sempre inevitabilmente, l’esborso ammesso.

Questo non sta a significare che si saltabecchi continuamente tra una stella Michelin e l’altra. Anche perché, fortunatamente, dalle nostre parti non sono rari i ristoranti che offrono pasti deliziosi pur non possedendo riconoscimenti ufficiali (e senza la conseguente necessità di accendere un mutuo per saldare il conto!). Però, una volta ogni tanto, la voglia di andare a sperimentare dal vivo e, perché no, anche a giudicare personalmente i grandi riconosciuti della cucina c’è, e noi vi ci sottomettiamo di buon grado.

Questa volta la scelta è caduta, un po’ per caso un po’ per comodità, sul ristorante di Davide Palluda all’Enoteca di Canale, a pochi minuti da Alba. Era un atto dovuto, non solo per la fama inarrestabile dello chef ma anche per l’incredibile vicinanza a casa. Nessuna foto. O almeno, nessuna fatta da me, perché tirare fuori la macchina fotografica al ristorante continua a sembrarmi un gesto di assoluta maleducazione. Il ristorante per giunta è luogo extra-confini, dove valgono regole di privacy ben particolari, chi può dire infatti con chi uno sceglie di accompagnarsi a tavola? Le foto che corredano questo post le ho perciò prese ‘a prestito’ per una volta dalla rete, ringrazio quindi implicitamente i relativi autori.



Di fronte al menù abbiamo scelto di affidarci allo chef scegliendo la selezione a sorpresa, quella versione ‘short’, da 5 portate, che mai e poi mai saremmo riusciti ad immagazzinare la scelta completa da ben 8 portate. Con prezzi variabili per portata che aleggiano mediamente sopra i 20 Euro, la nostra selezione gourmet per un costo totale di 70 è decisamente, se non economica, quantomeno conveniente. Anche perché il numero, la varietà e la ricchezza degli stuzzichini amuse bouche è stata tale che ad un certo punto abbiamo perso il conto degli antipasti. Solo l’arrivo del primo ci ha rimessi in carreggiata con il ritmo chiarendoci a quale punto della cena eravamo arrivati. Se questo tipo di selezione è senz’altro il modo migliore per realizzare un’esperienza a tutto tondo che effettivamente offra la possibilità di saggiare le virtù culinarie di uno chef, è però vero che rende difficile la scelta del vino con cui accompagnare portate varie e soprattutto a sorpresa. Qui l’Enoteca propone una soluzione eccellente: una selezione al calice di quattro vini scelti dal sommelier seguendo l’evoluzione della cena. 30 Euro e uno si leva il pensiero.

Cosa abbiamo mangiato? Tanto, ma proprio tanto ben di Dio. Realizzato dall’inizio alla fine con la passione e la competenza per cui Davide Palluda è rinomato. Materie prime stratosferiche trattate con rispetto e la giusta, mai stucchevole, dose di creatività. Le recensioni su questo chef  abbondano (alcune le trovate cliccando sulle foto qui) e io mi limiterò a confermarle: un’esperienza assolutamente da ripetere in un ristorante a meno di mezz’ora da casa (sono o non sono fortunata?). Senza dilungarmi nel lungo elenco di tutte le portate che abbiamo gustato, una ‘menzione d’ onore’ la voglio dedicare ad un paio di piatti.

Quando ho addentato il panino di foie gras in pane arabo avrei quasi potuto piangere. No, no, scusatemi, non per il pensiero dell’orribile fato delle povere oche ingozzate con l’imbuto (anche se condivido che questo trattamento sia crudele e inumano), ma perché nonostante tutto il foie gras rimane per me il cibo degli dei per eccellenza. Non ho mai ma proprio mai capito perché in Italia sia così raro poterlo gustare. Ricordo, per esempio, un ristorante ‘normale’, buono per carità ma comunque normale, a Valladolid, città della Spagna che di certo non è né Madrid né Barcellona, che una sera tardissimo a cucina quasi chiusa ci ha ammannito una semplice insalatina resa di qualità indimenticabile e natura quasi ‘imperiale’ da quattro generose fette di foie gras appena appena scottato. E in Italia nix! Fortuna (mia) che sto a pochi chilometri dalla Francia…

Il carosello di antipasti del nostro menù a sorpresa si è interrotto con l’arrivo del primo: ‘semplici’ ravioli quadrati di faraona conditi con il sughino ristretto ai funghi porcini in cui il pennuto (o ex tale) era stato sapientemente cotto. Da urlo!

E poi, e poi, ho finalmente assaggiato il piccione! Ovviamente un parente solo alla lontana di quei miseri esserini che, bombe biologiche vere e proprie, infestano le nostre città. Cotto al rosa come deve essere è stata un’esperienza che mi mancava e che ripeterei senza indugio (dimenticavo di dire: tra le carinerie del servizio ineccepibile c’è stata anche quella di verificare se a fronte della selezione a sorpresa avessimo un qualche desiderio particolare e lì non avevo saputo trattenermi dal dire ‘non ho mai assaggiato il piccione!’).

Un piccolo spazio lo devo lasciare anche per le critiche, che non si pensi che vado, mangio e non giudico di testa mia solo a causa di quella famosa stellina. Non ho capito il dolce. Sottolineo, non è che non mi sia piaciuto ma non l’ho capito. Per me era troppo complesso e un po’ confusionario. Un ovetto ‘Fabergé’ di cioccolato fondente con ripieno, coulisse e ammennicoli. Però è vero che io non sono una da dolci per cui ho già deciso, quando torno –  perché tornare torno – chiederò di sostituire il dolce con ancora un’altro antipasto che quelli non mi stancano mai! E ancora una cosina piccolissima, più di forma che di sostanza: cena più vini abbiamo speso cento euro a testa, una somma non esagerata ma neanche irrisoria, forse i caffè e l’acqua io non li avrei aggiunti al conto.

E se ancora non avete l’acquolina qui per voi una copia del Menù.

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